di Alfio Pelleriti

Il nipote del negus si può considerare una forma ludica di romanzo che viene costruito da Camilleri per mettere in evidenza non tanto i fatti della vicenda quanto l’atmosfera di un’epoca storica.
Nel corso di un anno, il 1929, quando già il fascismo si era consolidato come regime, avendo un solido consenso popolare grazie ad una propaganda capillare dei mezzi di informazione nonché all’olio di ricino, alle bastonature e alle pistolettate degli ardimentosi squadristi, al confino e infine alla fattiva collaborazione delle istituzioni statali, ormai occupate dagli uomini in camicia nera. Una violenza precisa, cinica e senza remore convinse tutti gli italiani che quella era l’unica strada percorribile per l’ordine sociale e tutti si comportarono come un corpo unico in cui tutte le parti rispondevano ad un unico centro di comando (ancora oggi senti affermare da qualcuno che allora “si stava con le porte aperte e nessuno rubava!” come se si fosse attuato il miracolo di trasformare tutti gli italiani in individui buoni, pacifici e non interessati alle ricchezze!). L’uomo solo al potere era Benito Mussolini, spietato nell’erigere uno stato totalitario, sorretto dalle sue leggi fascistissime.
I fatti, dunque, svoltesi in quel 1929, anno VII dell’era fascista, a Vigata, vedono protagonista un principe etiope, nipote dell’imperatore Hailè Selassiè, che si trova in Sicilia per motivi di studio. Tutto si gioca su un equilibrio sottile che avrebbe dovuto tenere unite caratteristiche che generalmente non stavano insieme con la mistica fascista: la negritudine e l’appartenenza alla classe dei potenti. In tali difficili equilibrismi si troveranno invischiati tanti “anelli” della burocrazia fascista (prefetti, ministri, federali, commissari di P.S., podestà).
Camilleri tira le fila e se la ride mettendo alla berlina dei palloni gonfiati, inetti e ipocriti e fondamentalmente un po’ vigliacchi che si muovono goffamente attorno ad una vicenda che ricorda le storie sagaci e un po’ piccanti del Decameron di Boccaccio, da cui uscivano fuori caratteristiche psicologiche di tipi umani che si possono riscontrare in tutte le epoche storiche, ma, in questo caso collocati nella nostra italietta e nella Sicilia di Camilleri in particolare.
La vicenda, raccontata come suo solito con sapienza narrativa unica, permette al lettore di gustare i vari episodi della storia, presentata come un mosaico nel quale via via l’autore inserisce le varie tessere con i ritmi giusti e tenendole insieme con quella lingua ibrida che sa di dialetto arcaico misto all’idioma italico, con strutture sintattiche ora semplici ora complesse ora desunte dal linguaggio parlato. Camilleri, come un navigato puparo, presta voce e vigore ai suoi pupi che menano colpi o stramazzano a terra, che alzano i loro acuti lai o s’avanzano minacciando sconquassi, ma suscitando sempre poderose risate degli astanti, divertiti e insieme più ricchi di conoscenze rispetto all’inizio dello “spettacolo”.