“La fogghia e lu ventu” di Mons. Antonino Distefano (1898 – 1987)

di Elsa Vittoria Sangiorgio

Non ho avuto il piacere di conoscere personalmente Monsignor Antonino Distefano ma ho letto i suoi scritti in una magnifica “Opera omnia” edita nell’anno Duemila dall’Amministrazione Comunale di Biancavilla.

“La fogghia e lu ventu” è una delle sue brevi opere in versi dialettali che, a guisa di “operette morali”, racchiudono il senso dell’etica, della religiosità e della morale del Suo insegnamento.         

Anche altri versi, come “La siti e la funtana” , “ ’U tistamentu di me’ nannu” , “Oggi è festa, don Pepè”, hanno una “morale” finale, come quella con cui i cantori dell’antica Grecia concludevano le loro favole, e tutti sono un inno al senso più vivo del Suo Credo.

“La fogghia e lu ventu” parla del tentativo di seduzione ad opera di un serpente che promette la visione di un nuovo mondo ed una vita diversa ad una ingenua foglia che, sempre attaccata ad un albero, vagheggia altri ambienti, altre situazioni non prive di interessanti avventure.

La foglia si lascia adescare da simili blandizie e si abbandona al miraggio promesso: lascerà il porto tranquillo, il forte legame con l’albero e, mossa dal vento, volerà per monti e per valli, come aveva visto fare agli uccelli, di cui aveva ammirato e invidiato le capacità; la foglia “senti ca mori di felicità”, dice l’Autore, perché si sente libera, perché acquista conoscenza, vede cose che dalla sua fissa postazione non avrebbe mai visto; non sa esprimere la gioia che prova alla vista del mare, delle città; ma lei non è fatta per volare, non ne ha le abilità, è stata creata per lasciarsi illuminare dal sole al mattino, per fare ombra nelle assolate giornate, per dare gioia agli uccelli che si posano sui rami.                   

Infatti dopo un po’ la foglia lentamente plana a terra, come un aereo di carta e precipita nel bel mezzo di una pozza di fango. E qui si manifesta, anzi esplode in tutta la sua autenticità, l’insegnamento di   Monsignore: Perché desiderare quello che non si è? Ci dice di non abbandonare il certo per l’incerto; e qual è il certo?

La metafora è rivelata: è la sicurezza della fede, il porto sicuro della salvezza che solo Dio può dare; ”ténimi strittu a la pianta” – chiede a Dio l’Autore –  perché c’è “stu vintazzu ca mi cutulìa”, c’è la tentazione  che può farlo cadere, portandolo lontano dalla diritta  via.

La Sua pianta in terra è la Chiesa, in cielo ci sarà “la luci di l’eternu Amuri”, quello che non inganna né abbandona, ”la vera vita la truvamu ‘n celu” – dice .

Questo è il racconto che Monsignore ci lascia ed è a questo punto che mi è venuto naturale fare delle riflessioni, che volevo comunicare direttamente all’Autore in una forma di “dialogo impossibile”: 

  • “Monsignore, se mi permette, ad una prima lettura sembra che Lei identifichi la foglia con la debolezza umana della donna che, secondo la narrazione  biblica, cede alla lusinga, alla  seduzione  del  serpente, che tenta la donna, la quale si addosserà, in veste di provocatrice, maggiore  responsabilità nel commettere  il peccato a danno di uno sprovveduto  maschio e conserverà per sempre, come un marchio, l’immagine  dell’inganno, della menzogna, di colei che, insomma, ha determinato la caduta nel peccato originale di tutta l’umanità”.
  • “Penso piuttosto che dietro la metafora della foglia si nascondano quei  giovani che si lasciano tentare dalla visione abbagliante di paradisiaci mondi e si perdono dietro le lusinghe di fallaci soluzioni quando assumono delle droghe o anche alla seduzione di ritenersi superiori o comunque superbamente abili di competizione con l’Essere divino; la foglia diventa così un qualsiasi uomo o donna, come oggi se ne vedono tanti, che si lasciano tentare dal sogno del successo, dall’insidia della popolarità  e si lasciano sedurre dal fascino del lusso, dell’esibizione e del facile guadagno; oppure quelli che si lasciano tentare dal vizio del gioco e rovinano interi patrimoni e la serenità familiare per inseguire una fortuna che forse non arriverà mai ; o coloro, piuttosto, che si lanciano all’inseguimento del potere e delle ricchezze e abusano della propria autorità per  sopraffare gli altri”.                      

A volte non ci accorgiamo che tutti noi siamo foglie, deboli, leggeri esseri che possiamo incorrere in errori, talora irreparabili. “U sintimento è ‘n filu di capiddu” –  recita un proverbio in dialetto siciliano.

Solo la conoscenza, la cultura, quella con la C maiuscola, quella fatta di sensibilità, di rispetto degli altri, di considerazione dell’altrui libertà come della propria, ci potrà dare il senso della giusta realtà e dell’equilibrio nelle scelte.

  • “Monsignore, la lettura di questi versi spinge l’animo ad altre riflessioni; non voglio mancare di rispetto, quando si ricordano i versi del Sommo Poeta “Fatti non foste a viver come bruti \ ma per seguir virtute e canoscenza” ma anche se la foglia non era stata dotata di ali né della facoltà di volare, chi poteva impedirle di desiderarlo?

Non possiamo farle una colpa se voleva allargare il campo delle sue conoscenze, se voleva sapere di altri mondi, altri ambienti; non poteva sapere cosa avrebbe trovato, quali sorprese le avrebbe riservato la nuova esperienza, ma è proprio questo il motivo che spinge l’umana intraprendenza: la ricerca del nuovo, l’acquisizione di diverse conoscenze che arricchiscono lo spirito, l’incontro con altre culture per non rimanere chiusi nel proprio piccolo, egoistico mondo”.

Monsignore riflette un po’ e ammette che l’umanità ha sempre rivolto il suo sguardo verso orizzonti lontani che si è imposta di raggiungere e in questo ha dimostrato molto ingegno, tenacia e poteri insospettabili ma talora non dimostra di accettare di far parte di un disegno divino che prevede la differenziazione di ruoli per dar vita ad un immenso Progetto di vita, di cui l’individuo non può vedere né immaginare i confini.

L’uomo ha fatto della fretta il suo più prezioso amico, non riesce più a fermarsi a riflettere, non lascia parlare il suo cuore né ad avere fiducia nell’Essere Infinito ed in questa folle corsa perde la ricchezza delle sensazioni che la Natura, il suo Prossimo, i valori portanti gli avrebbero donato.  Non mi resta che concludere il dialogo con Monsignor Distefano che trova ad ogni domanda adeguate risposte, dettate dal suo arguto, fine pensiero e sostenuta dalle arguzie del suo stile!

A noi rimane il piacere della lettura dei suoi scritti, da cui traspare l’integrità morale e l’onestà intellettuale che hanno segnato la Sua vita di prelato e di uomo.                   


Una risposta a "“La fogghia e lu ventu” di Mons. Antonino Distefano (1898 – 1987)"

  1. Grazie. Ho il piacere di leggere riflessioni molto interessanti che ancora di più mi portano ad approfondire la conoscenza di questo intellettuale biancavillese di cui non sapevo niente. La “r-esistenza” del gruppo culturale che ha avviato questa pubblicazione è ammirevole.

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