Fenomenologia del rumore a Biancavilla

di Alfio Pelleriti

Analizzare un evento mettendo in campo approcci diversi, dalle argomentazioni logiche alle considerazioni sociologiche fino ai sentimenti ed alle emozioni era il metodo preferito da raffinati filosofi del calibro di George Gadamer o Ludwig Wittgenstein. Se mi è consentito l’azzardato accostamento e l’impudente immodestia, vorrei seguire tale metodo nell’esaminare un evento ignorato da molti, sottovalutato dagli amministratori della città (“parva quaestio” per chi affronta quotidianamente “grandi” problemi!), elemento di riconoscimento positivo per parecchi, variabile insostituibile nella manifestazione di gioia e di eventi straordinari per gruppi più o meno numerosi. Mi riferisco al rumore, in tutte le sue forme, in tutte le sue manifestazioni, elemento imprescindibile di feste laiche e religiose, tanto che si può tentare una riflessione sulla fenomenologia del rumore a Biancavilla.

Chi decide di far rumore potendolo evitare con un’azione alternativa con la quale otterrebbe lo stesso risultato è spinto dalla necessità psicologica di farsi notare dagli altri. Una personalità caratterizzata da un “sé” debole, con un forte senso di inferiorità non crede infatti di poter riuscire a competere con i suoi simili, che percepisce dunque non come amici, colleghi, concittadini, correligionari ma come rivali con cui misurarsi, avversari da abbattere o almeno da infastidire, danneggiare, importunare pesantemente. Allora chi non riesce a presentare con rigore dialettico la sua tesi o reputa addirittura inutile confrontarsi con chi ritiene inferiore, ecco… si fa avanti con la sua grancassa e fa rumore. E dice agli altri, ai suoi “nemici”: “io ci sono! Io esisto! Io sono forte! Io ho ragione! Io conto e sono ammirato! Io me ne frego di chi pensa, io agisco: sono un guerriero! Nessuno mi ferma, sono il padrone!”

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Esaminiamo allora in dettaglio i protagonisti dell’evento che connota fortemente la vita della comunità biancavillese: da citare subito come nemici della quiete pubblica i giovani centauri che scorrazzano per le vie principali e nelle piazze con i loro scooter “elaborati” le cui marmitte rombano come cento martelli pneumatici e, con espressione soddisfatta, se la ridono delle esigenze dei biancavillesi costretti per vari motivi a rimanere in città, consci di essere loro i padroni assoluti poiché nessuno li ferma o contrasta, dicevo in un precedente intervento. In groppa ai loro destrieri meccanici si danno alle loro ardimentose giostre e nottetempo si sfidano in gare avvincenti lungo Viale dei Fiori o in Via C. Colombo o in Viale Europa. Questi motociclisti fracassoni appartengono a famiglie operaie o di estrazione piccolo borghese: commercianti, impiegati, piccoli e medi imprenditori. E’ da supporre che tutti hanno in comune un passato fallimentare a scuola ed esperienze relazionali da gregari; che non hanno mai fatto delle scelte personali, non hanno difeso un personale punto di vista ma si sono sempre adeguati. Costituiscono una categoria importante per la massificazione e per il trionfo delle mode.

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Simile alla tipologia appena descritta è quella di chi sceglie di attentare ai timpani altrui con potenti amplificatori montati sulle loro auto che diventano le loro gabbie d’acciaio, il loro rifugio esistenziale. Non rischiano nulla costoro poiché non sono interessati a provare l’ebbrezza della velocità o la risposta elastica e potente del motore o l’uso degli ultimi ritrovati tecnologici in campo automobilistico. No, per essi è importante poter azionare una manopola e vomitare sugli astanti un ciclone di decibel da far tremare anche i muri e attirare su di loro le espressioni costernate, basite, arrabbiate di chi è costretto ad interrompere qualunque azione o discorso perché bloccato dall’irruento passaggio del bisonte meccanico. L’automobilista fracassone non rischia nulla; non deve pigiare sul pedale dell’acceleratore per farsi notare; non deve essere un pilota provetto, anzi spesso l’auto è un vero catorcio ma dentro la sua pancia ha potenti diffusori da cui uscirà musica tecno o comunque un sottoprodotto pseudo musicale. Anche per costoro è importante riconoscersi appartenenti a un gruppo, a una tribù: c’è quello che per imporsi si affida alla hard rock music; un altro al genere neo melodico napoletano oppure quello che propone agli esterrefatti astanti il genere rapper. Lo stile tuttavia è identico: imporre un “sé” privo di fondamento emozionale o ideale o culturale attraverso il rumore spacciato per scelta estetica.

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Ancora, per continuare nell’analisi della realtà effettuale del nostro centro, cioè di ciò che è essenziale come caratteristica che lo connota, non si può non parlare dei pub che hanno letteralmente occupato il centro storico del paese. Chi li gestisce non si limita ad accogliere i clienti nei loro striminziti spazi interni ma all’esterno collocando tavoli e sedie sui marciapiedi, perfino in strada o sul marciapiedi antistante rendendo quasi impossibile poter accedere alle porte d’ingresso o nei garage o ai pedoni l’attraversamento in sicurezza di quegli spazi che dovrebbero essere pubblici. Naturalmente ogni pub degno di tal nome ha le sue casse amplificate o il suo gruppo musicale o la sua postazione del karaoke per poter allietare i propri avventori e pazienza se i poveri e impotenti residenti che caparbiamente si ostinano a rimanere nelle proprie case si sorbiranno l’allegro schiamazzo, l’insopportabile cacofonia dei fracassoni impuniti, anzi autorizzati dal governo comunale. La movida nostrana vede sciamare orde di giovanissimi che schiamazzano, bevono, trangugiano panini enormi ripieni di salsine varie e patatine fritte che impegnano stomaci e fegati ad una iperattività che, non è difficile ipotizzare, porterà a patologie connesse all’apparato digerente. Gli amanti della vita notturna, inoltre, non sono certo campioni nella pratica del “bon ton” né brillano per senso civico; hanno anche loro esigenze fisiologiche e aiutati da stradine poco illuminate o dalle lunghe e fitte teorie di auto ammonticchiate ovunque ci sia spazio lasciano traccia di se stessi marcando il territorio. Insomma sporcano in piena libertà in un contesto di autentica anarchia.

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Tutto il centro storico diventa infatti “terra di nessuno”, dove si impone la legge del più forte, del più “macho”, lì dove contano i muscoli dei palestrati non il cervello. In tale ambientino si abbassano fino a scomparire le censure e i giovanissimi eroi si comportano da adulti perché non sanno come si potrebbe vivere una vita da adolescenti. Non danno tempo e spazio ai sentimenti, non sanno come coltivarli con sogni, progetti, fantasie e speranze; avvertono un’emozione e si affidano alla pulsione del momento che si fa spazio tra le maglie allargate della coscienza e a volte abbattute da dosi abbondanti di droga e alcool e bruciano tutto in rapporti istintuali, animaleschi, deprivati di qualsiasi velo idealistico. Si afferma il “qui ed ora” di pulsioni libidiche e aggressive vissute in relazioni non “meditate”, non supportate da sentimenti d’amore e di amicizia e viene eliminato il lavorio inconscio necessario per la formazione e il consolidamento dell’Io e del Super-Io personale e sociale.

Il rumore in questo caso diventa il “brodo primordiale” che ottunde, che contribuisce ad eliminare ogni traccia di riflessione prima della scelta esistenziale e che apre le porte ad una vita inautentica dove non ci sarà spazio per i grandi valori della democrazia e per i diritti/doveri della legalità. Ci sarà soltanto un comportamento omologato e appiattito sui “si dice”; persisterà un “sé” infantile che nel tempo si muoverà come un automa; si affermerà un individuo che non capisce il significato di parole importanti come libertà, solidarietà, legalità, bellezza, armonia naturale, arte; si formeranno individui poveri intellettualmente anche se diplomati o laureati, incapaci di sostenere tesi con argomentazioni logiche costruite ed espresse con un linguaggio adeguato.

Chi non possiede un bagaglio lessicale ricco, si estranierà dal gruppo, non reputerà interessante leggere un libro perché ha notevoli difficoltà nella lettura, abilità complessa che passa attraverso il processo della denotazione del testo e poi nella interpretazione e comprensione dello stesso, e tale abilità può consolidarsi solo se esiste un substrato culturale adeguato e un vissuto personale significativo, ricco di esperienze interessanti, esaltanti, dolorose, capaci cioè di coprire l’ampio ventaglio emozionale. Allora sì si possono incontrare giovani che apprezzano Mozart e Chopin, Michelangelo e Guttuso, Sepulveda e De Roberto, Scalfari e Serra, Edith Stein e D. Bonhoeffer, Mancuso e H. Kung, Gadamer e Levinas o se si vuole, Guccini e De Andrè, Paolo Conte e Lucio Dalla, Celin Dion e Natalie Cole, o cineasti come Bergman o Fellini. Questi giovani non avranno bisogno di farsi notare sfrecciando lungo la via principale o rumoreggiando nottetempo, vivranno invece una vita sobria, apprezzeranno il silenzio, piangeranno di commozione davanti agli affreschi di Giotto in Assisi o nella cappella degli Scrovegni.

Ma una fenomenologia del rumore impone che l’analisi sia condotta ad ampio spettro. Quindi vorrei inoltrarmi su un terreno che si presenta impervio e pieno di insidie poiché dovrò scontrarmi inevitabilmente con certe “verità” seguite dalla maggioranza con convinzioni cementate dalla tradizione popolare. Anche a Biancavilla, come del resto in altre realtà locali meridionali, le feste religiose hanno a che fare con il rumore ancorate come sono a miti secolari, a elementi pagani e a volte a vere e proprie superstizioni. Si dice che tali feste sono d’utilità al popolo perché sono l’occasione giusta per manifestare la propria devozione al Santo, alla Madonna, a Dio, tuttavia con esse si rinfocolano pregiudizi e false convinzioni, oltre che perniciose confusioni tra fede e religiosità formale.

foto Alfio Pelleriti

Ho ascoltato durante un’omelia che “attraverso le feste e le processioni il sacro entra nel mondo per cambiarlo o confortarlo”? Che significa? Ancora ci si ostina ad affermare un’assurda separazione tra realtà divina e realtà materiale? Ancora parlare del mondo per qualcuno significa parlare di peccato e dunque, ancora si separa Cielo e Terra? Ancora si interpreta la vita religiosa come esternazione trionfale di labari, di vessilli e di simboli religiosi come se si fosse in un’eterna lotta per affermare la propria identità, la propria specificità o superiorità?

Molti suppongono che aderire ad una confraternita o partecipare alla processione del Santo patrono del paese possa bastare per tacitare la coscienza, per autoconvincersi di essere in grazia di Dio, quando invece vivere secondo il Vangelo impone una trasformazione profonda di se stesso, un vero rivolgimento interiore che porta ad una nuova percezione della realtà. L’orizzonte di senso diventa Dio e fare entrare Dio nella propria vita significa cogliere la grande perfetta armonia dell’esistente e amare tutti gli esseri viventi: uomini, animali, piante, aria, acque. E ciò che conta per te è il tuo nuovo amico, Gesù, ed è con Lui che parli, nelle sue mani riponi ogni speranza, ai suoi piedi tutti i tuoi peccati. E impari a conoscerlo man mano che vai nella sua casa per ringraziarlo e adorarlo; e capisci che hai necessità di accoglierlo dentro di te accostandoti umilmente all’altare.

Come si possono educare i giovani ai dogmi del cattolicesimo se si perde di vista l’essenza del Cristianesimo? Che è Amore, Misericordia, Accoglienza, Ricerca della Verità passando “attraverso la notte buia del dubbio”, come dicevano San Giovanni della Croce e i grandi mistici, da Edith Stein a Etty Hillesum, a Simone Weil.

Ma torniamo al rumore: botti che si prolungano per interminabili minuti; vere e proprie batterie di obici che tuonano possenti facendo sobbalzare le povere pareti dei palazzi che contornano la piazza principale su cui si apre la scalinata della Basilica e che diventano una prova difficile da superare per i timpani degli astanti. Eppure per molti biancavillesi sarebbe un affronto al Santo e alla sensibilità religiosa se non ci fossero le salve di cannone che di buon mattino e per otto giorni annunciano l’approssimarsi del giorno della festa e poi il cannoneggiamento forte, prolungato, che dovrebbe significare… cosa? L’amore cristiano che è soprattutto “carità”? la forza del perdono con cui si è aperti all’accettazione e al confronto col proprio nemico? Il rispetto di ogni elemento della natura: piante, animali, fiumi, mari, monti, boschi, aria? La solidarietà tra tutti gli uomini: bianchi e neri, arabi e orientali? La tolleranza per altre confessioni religiose e la possibilità di preghiere comuni? No. Niente di tutto questo nelle numerose, rumorose e vanagloriose feste religiose paesane.

Foto Alfio Pelleriti

E allora ci vorrebbe più sobrietà e pudore intellettuale nel manifestare il proprio credo e le proprie convinzioni. Senza alcuna grancassa festaiola. Magari dandosi da fare con carità cristiana nei confronti di chi vive ai margini della comunità; magari accogliendo gli immigrati e lottando per la loro integrazione nel tessuto sociale ed economico del nostro paese; magari ascoltando i messaggi di Papa Francesco che spingono alla scelta della semplicità e della sobrietà appunto, che invitano all’ecumenismo e alla tolleranza, che spingono al confronto senza vedere necessariamente nemici e diavoli nella società e nella modernità, che invitano al valore della libertà e della democrazia che passa attraverso il rispetto della legalità e delle regole evangeliche.


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