di Alfio Pelleriti
Il 23 maggio 1992 appresi dell’attentato a Capaci dalla TV: il giudice Giovanni Falcone era stato portato in ospedale insieme alla moglie Francesca Morvillo. Rimasi attonito e sgomento come lo ero stato per altri eventi tragici del passato: l’uccisione di John Kennedy e poi del fratello, Robert, di Martin L. King. Uscii per andare al circolo e quando stavo per raggiungere l’ingresso, mi accostai alla porta finestra perché stava per iniziare un’edizione straordinaria del telegiornale e appresi che il giudice era morto. Rimasi lì in strada a guardare attraverso i vetri, gli occhi spalancati, la mente bloccata e fredda, incapace di elaborare quella notizia così drammatica, così assurda. Entrai e, con passo pesante, cercai soltanto qualche amico con cui condividere anche in silenzio quella notizia che annichiliva fin nel profondo. Penso che in tanti provammo quella sensazione sgradevole simile a quella che si prova quando naufraga improvvisamente una speranza a lungo coltivata e poi, negli anni, poco per volta, diventa una certezza, la speranza che quel cavaliere buono avrebbe sconfitto la mafia, la mala pianta. E invece, l’eroe dei siciliani onesti era stato ucciso vigliaccamente com’era nella tradizione mafiosa. Avevano usato per quell’attentato cinquecento chili di tritolo per uccidere il magistrato, la moglie Francesca Morvillo, i tre poliziotti della scorta, Rocco Dicillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro, perché vigliaccamente uccide la mafia, alle spalle, come con Cassarà, con Boris Giuliano, con Chinnici, con Piersanti Mattarella, con Pio La Torre, con il generale Dalla Chiesa, cosi come uccideranno di lì a poco, Paolo Borsellino.

Tanto si è detto e scritto sui due giudici amici, diventati icone della lotta alla mafia, dei loro successi nel condurre la guerra contro gli uomini più crudeli, nella storia già truce dell’organizzazione criminale Cosa Nostra. In tanti sconsigliano di usare per loro l’appellativo “eroi”, ma non so quali termini usare per indicare Falcone e Borsellino che erano sicuri di lottare contro un nemico forte, infido, che aveva alleati anche nel fronte opposto, quello istituzionale: sevizi deviati, poliziotti infedeli, politici conniventi con i criminali, una parte numerosa della popolazione siciliana che mal li sopportava, abituata com’era a ficcare la testa dentro la sabbia, ad essere “Maggioranza silenziosa”, omertosa nel negare l’esistenza stessa della mafia e dei morti ammazzati, ma portarono comunque a compimento la loro missione, rimasero “in trincea”, anche se soli.
Ricordo ancora un incontro a Torino con un mio conoscente residente a Palermo che alla mia domanda su come si vivesse nella città siciliana trasformata in una “Tombstone”, dove i morti ammazzati si contavano a centinaia (si era nel 1983 in piena guerra di mafia: i corleonesi Riina, Provenzano, Bagarella stavano sterminando le famiglie, ormai “perdenti” degli Inzerillo, dei Bontade, dei Salvo), mi rispose come nella storiella che si sente raccontare sui siciliani che non vedono, non sentono, non parlano e cioè che i giornali esageravano nel riportare le notizie, che erano scontri tra delinquenti comuni (che si ammazzassero pure!), che a Palermo si viveva tranquillamente bene e che, come al solito, si cercava di screditare la Sicilia.
E ancora un’insegnante che pure lei viveva a Palermo e con cui ci si vedeva in estate a mare, e spesso, parlando di Falcone, dopo il suo assassinio, ne parlava male, orgogliosa di “andare controcorrente” perché secondo lei era uno che “voleva mettersi in mostra” e che per tale egoistica esigenza gettava discredito sull’intera regione oltre che mettere in pericolo la popolazione del capoluogo. A volte quando il tuo interlocutore sostiene teorie lontanissime dal tuo essere e dal tuo sentire, preferisco tacere e non sprecare tempo. Avvenne così anche con questa tale “insegnante”.

Falcone e Borsellino risposero con un comportamento coerente ai valori in cui credevano, quelli sanciti dalla Costituzione, quelli su cui si basa la nostra democrazia, avendo come imperativo etico quello di compiere fino in fondo il proprio dovere di magistrati e di servitori dello Stato. Non è poco! Falcone spese tutto il suo tempo nello svolgimento del suo lavoro, spesso spese anche il proprio denaro, come avvenne nel 1985, quando, insieme a Borsellino, avendo soggiornato per motivi di sicurezza all’isola dell’Asinara per scrivere l’istruttoria per il Maxiprocesso nei confronti di centinaia di mafiosi che sarebbero stati poi condannati a pesanti pene detentive e i capi all’ergastolo, dovettero pagare allo Stato il vitto e l’alloggio per i mesi trascorsi lì per completare quel lavoro.
Falcone e Borsellino per condurre le loro indagini vivevano una vita blindata, lavorando senza soluzione di continuità per mesi, per anni; sempre in continuo rischio della vita. Uomini guidati dall’ideale universale della Giustizia; “fessi” per l’uomo egocentrico, “titani” ed eroi per l’uomo autentico. Come non chiamarli eroi se, potendo evitare di essere uccisi, continuarono fino in fondo la loro azione e si immolarono infine per il compimento della loro missione. Non furono avventati, fecero semplicemente una scelta tra il vivere una vita senza mai rischiare, evitando di incrociare problemi, coltivando le amicizie buone per far carriera e mettere da parte un gruzzoletto, oppure non badare alla quantità di tempo “sottratta” alla vita personale, ma alla sua qualità, assaporandola fino in fondo, amando come fanno i santi e gli uomini giusti, i valori universali che richiamano l’amore per la Natura, per l’Umanità tutta, per una società che fosse giusta ed equa, godendo della felicità che viene dal compiere il proprio dovere con intelligenza e con dedizione. Insomma furono eroi perché stavano dalla parte dei deboli contro gli arroganti e i prepotenti, contro le volpi e contro i lupi che si vestono d’agnelli, quelli che stanno sempre a galla dentro i poteri forti: nella magistratura, nella politica, nell’alta finanza, nella massoneria, in quel mondo osceno e ambiguo dei servizi segreti deviati che strizza da sempre l’occhio al neofascismo e a organizzazioni paramilitari, come fu “Gladio”.

La loro energia fu quella dell’amore che li spinse alla realizzazione del Bene e si sa che spesso costoro, prima che eroi, devono diventare martiri, avendo conosciuto anche la persecuzione. Falcone e Borsellino non sono morti invano, né la loro immagine di paladini della giustizia potrà mai spegnersi nei cuori di tutti coloro che amano sopra ogni cosa la lealtà, l’onestà, la coerenza.
Qualche citazione:
Nietzsche in “Così parlò Zarathustra”: “oggi predicano tutti rassegnazione e discrezione e accortezza e diligenza e riguardo, e il lungo eccetera eccetera delle piccole virtù. C’è molto da rispettare nel fatto che voi, uomini superiori, disperavate. Giacchè voi non avete imparato ad arrendervi, non avete imparato queste piccole furberie… io amo colui che spreca la propria anima, che non vuole ringraziamenti, e che non restituisce nulla: perché egli dona sempre e non vuole conservarsi”.
In Grecia, culla della nostra civiltà, chi si apprestava ad amministrare la polis doveva dar sempre mostra di dirittura morale e di grande rispetto delle leggi. Neanche il Re, suprema autorità, sfuggiva a questo imperativo. Così parla Creonte nell’”Antigone” di Sofocle: “… non si conosce l’anima, la mente, il pensiero d’un uomo, se di sé non dà prova al governo e nelle leggi. Chi, dirigendo l’intera città, non colga il segno del miglior consiglio, ma stia, per la paura a bocca chiusa, pessimo sempre mi sembrò, mi sembra; e di chi stima più della sua patria un amico, non faccio nessun conto. Io, testimone Zeus che tutto vede, non tacerei vedendo una rovina in marcia in luogo di salvezza, né un uomo ostile alla città l’avrei per amico”.

Leonardo Sciascia, I funerali del boss di Riesi, Giuseppe Di Cristina
“…primo giugno 1978: ai funerali del ragioniere Giuseppe Di Cristina parteciparono circa diecimila persone. Il ragioniere, che aveva in corso una grave vicenda giudiziaria ed era da poco uscito – libertà provvisoria – dal carcere, era stato misteriosamente ucciso…. Tra quelle persone, le fotografie scattate dalla polizia permisero di identificarne quarantotto che, per partecipare ai funerali, si erano abusivamente assentate dal lavoro e furono denunziate per interruzione di pubblico servizio. Diciassette impiegati municipali, quattro medici condotti, quattro presidi di scuole medie e superiori, cinque insegnanti, cinque impiegati postali, due collocatori comunali, due impiegati dell’esattoria, tre cantonieri dell’ANAS, il veterinario comunale, quattro bidelli avevano lasciato il loro servizio per accompagnare Giuseppe Di Cristina al cimitero del paese. Denunciati furono inoltre, per non avere denunciato quelle assenze, il sindaco del paese e il funzionario del Provveditorato agli studi; e per aver disposto che gli spazzini comunali lasciassero di pulire le strade e trasportassero le tante ghirlande di cui i funerali si adornavano, fu denunciato un assessore comunale. E dulcis in fundo: duecento studenti parteciparono al mesto corteo…
Una così imponente manifestazione, una così totalitaria partecipazione del paese ai funerali di un uomo dai giornali proclamato mafioso e che doveva rispondere di gravissime imputazioni, è un avvenimento che vale più di tutta la carta stampata che da circa un secolo volteggia intorno al fenomeno mafioso…
Il comportamento della popolazione di Riesi può avere questa sola spiegazione: il carabiniere, lo Stato, la legge dello Stato erano come inesistenti di fronte a quei funerali, come se non ci fossero… per i cittadini di Riesi quella cerimonia era un atto della loro vita, del loro modo di essere, della loro visione delle cose, della sola legge – morale e pratica, di affetti e di effetti, nell’ordine interiore e nell’ordine sociale – che veramente conoscevano.”
da La Sicilia come metafora, intervista di M. Padovani, Milano Mondadori, 1979

Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Il capitano Bellodi interroga Don Mariano
“ – e lei è uomo da sentire rimorso?
- Né rimorso né paura; mai.
- Certi suoi amici dicono che lei è religiosissimo.
- Vado in chiesa, mando denaro agli orfanotrofi…
- Crede che basti?
- Certo che basta: la Chiesa è grande perché ognuno ci sta dentro a modo proprio.
- Non ha mai letto il Vangelo?
- Lo sento ogni domenica.
- Che gliene pare?
- Belle parole: la Chiesa è tutta una bellezza.
- Per lei, vedo, la bellezza non ha niente a che fare con la verità.
- La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.…”

Alfio Caruso, Perché non possiamo non dirci mafiosi
“Quando Falcone nel 1991 lasciò Palermo per Roma, i suoi concittadini tirarono un sospiro di sollievo. Il ‘Falco’ adorato dagli uomini della scorta, il nemico più pericoloso nella plurisecolare avventura di Cosa Nostra, era costretto a spostarsi nella capitale per non arrendersi. A Palermo gli avevano fatto terra bruciata intorno. Non i Bravi Ragazzi ma l’ipotetica società civile, i rappresentanti delle istituzioni, i presunti avversari della mafia… Falcone andò via dalla città che amava perdutamente quasi che il problema fosse lui…A Palermo nessuno manifestò pubblicamente solidarietà e stima nei confronti del magistrato in partenza. Le scritte sui muri dicevano: ‘Morte a Falcone’”
“Ci raccontano di una Sicilia diversa, di un futuro pieno di turismo, di milioni di visitatori da Monreale alla Valle dei Templi, dall’Etna a Taormina, da Selinunte a Segesta, e a noi pare di ascoltare i discorsi e le promesse della nostra infanzia. Una delusione dopo l’altra, abbiamo imparato che il progresso, a differenza della manna, non piove dal cielo. E finchè ci saranno gli Amici, i Bravi Ragazzi, gli ‘sperti e i malandrini’, i compari, i galantuomini, i gattopardi non ci sarà progresso, resteremo avvinti alla nostra dannazione… che senso ha sentirsi i più intelligenti del mondo per vivere come i più scemi?”
Alfio Caruso, Perché non possiamo non dirci mafiosi, Longanesi editore, Milano 2002

23 MAGGIO 1992
Veniva da Roma quel giorno Giovanni,
cercava assassini, mafiosi, mendaci,
ma la sua corsa fu fermata a Capaci.
Ardeva l’asfalto e mordeva le carni,
e in cielo eran pronti gli scanni.
Un freddo silenzio empì tutti i cuori,
crollarono dei giusti speranze e furori.
S’udì dalle sbarre un tintinnio di bicchieri
e i ghigni dei vili al barbaglio dei guerrieri.
Alfio Pelleriti
Un articolo molto bello, toccante per il racconto di quei giorni che hai voluto condividere, ma soprattutto ricco di numerosi spunti di riflessione.
Le parole di Sciascia sono illuminanti: la mafia è un fenomeno sociale prima di essere un fenomeno criminale. Si tratta di una verità scomoda, ma bisogna pur riconoscere che la mafia amministra il territorio e il potere, e come tale trova il riconoscimento valoriale di una larga fetta della popolazione. Per queste ragioni trovo la dialettica buoni-cattivi del tutto inadatta. Allo stesso modo in cui De Martino svelò l’errore metodologico con cui la società civile analizzava (senza capirli) i rituali magici lucani, così servirebbe un cambio di paradigma che permetta di leggere il fenomeno mafioso non in contrapposizione con le verità assolute che lo Stato presume di incarnare, ma scendendo “etnologicamente” sul campo. Mi perdonerà Nietzsche, ma in questo caso occorre mediazione, dialogo, capacità di spezzare le dialettiche assolute.
Un caro saluto,
Riccardo
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