di Alfio Pelleriti
Apprezzo, stimo, ammiro Gianrico Carofiglio e seguo con attenzione i suoi interventi in televisione e ne gioisco perché li trovo in sintonia perfetta con le mie idee e con le mie convinzioni.
Lo ammiro inoltre per il suo coraggio, per la sua forza argomentativa che si manifesta con la compostezza e la sicurezza dei saggi e che non si indebolisce di fronte a nessuno dei suoi oppositori. Infine ne apprezzo lo stile, elegante, pacato, autorevole. Nell’Ottocento avresti detto semplicemente un “gentiluomo” o un cavaliere, quando con tale termine si voleva indicare il difensore dei deboli dalle prepotenze dei potenti.

Come non seguire, perfino con stupore, i suoi ragionamenti, che definirei classici come un sillogismo aristotelico: due premesse e poi la conclusione. Carofiglio, come lo Stagirita, cura molto le premesse, che diventano assiomi, situazioni apodittiche e cogenti e mentre le presenta egli è moderatamente teso, concentrato. Non evidenzia alcuna sfasatura, la presentazione della tesi è chiara, semplice, solida nell’architettura. Infine, la conclusione che chiude il cerchio dalla logica perfetta, e chi ascolta resta a bocca aperta, stupito e stralunato, mentre lui accenna ad un sorriso compiaciuto, come se sapesse cosa stai provando. E son sicuro che prova anche un pizzico di pietà e non affonda il colpo, notando l’avversario inebetito e in difficoltà. Lo spettatore, intanto, da casa ripete a se stesso che ha ragione, che dice il vero, e prima che la presentatrice lo saluti, ripete a se stesso: “Ecco, quello lo vorrei di certo per amico!”
Ho finito di leggere “La misura del tempo” e presento, come sono solito, ad un ipotetico lettore le mie considerazioni. Intanto ho avuto la conferma che il genere “giallo” non lo preferisco, perché la vicenda rimanda alla cronaca, a fatti della quotidianità, che con la loro grigia normalità non mi suscita soverchio interesse. Leggendo, infatti, vorrei sempre incontrare qualcosa di insolito. Per esempio, guardare nelle profondità dei cuori provando insieme ai personaggi gioie e dolori, condividendone dubbi, versando qualche lacrima se occorre di solidarietà.

E dunque, seguendo la vicenda di Guerrieri, sono stato più attento nei momenti in cui l’avvocato si dava a riflessioni esistenziali che poco avevano a che fare con vicende giudiziarie. A tal proposito ho ripensato a Nietzsche e alla colpa che dava ad Euripide e a Socrate, colpevoli d’aver dato inizio alla decadenza del mondo occidentale, il primo introducendo la “quotidianità” nella tragedia, togliendo centralità all’eroe e ai grandi temi che riguardavano non solo uomini ma anche le divinità, e il secondo colpevole d’aver introdotto l’intellettualismo etico, eliminando passione e spiritualità nella vita degli uomini, facendo “fuggire”, diceva il filosofo tedesco, gli Dei dalla storia dell’umanità.
Ho seguito Guerrieri, dunque, quando vestiva i panni del filosofo e mi ha colpito in particolare il suo incontro con Lorenza, sua antica fiamma, e una riflessione che attiene il titolo del libro: “Pensiamo che sia il tempo lentamente e ostinatamente, a cambiarci. Invece il tempo in sé non cambia nulla, al massimo invecchia. Le persone incapaci di incontrare davvero gli altri, come Lorenza, non cambiano”. Una riflessione amara sulla vita e sulle relazioni spesso difficili se non impossibili tra gli uomini, che raramente si fanno cambiare dagli eventi e rimangono identici a se stessi perché hanno paura ad uscire da quei quattro schemi che la casualità degli eventi e l’ambiente ha loro presentato. E poi, a seguire, ho apprezzato in particolare la domanda rivolta al lettore per definire la categoria del tempo, sul quale naturalmente nessuno può sperare di trovare la risposta ultima e definitiva: “Cosa sono adesso che ero anche a quel tempo? Non una singola cellula del mio corpo esisteva allora; nessuna cellula di allora esiste adesso. Ma l’identità? Era uguale o era mutata?” Quante riflessioni si innescano su questo passaggio, quanti rimandi a scrittori, a filosofi e al proprio vissuto!
Tutto il resto, la vicenda giudiziaria del giovane Cardace accusato dell’omicidio di uno spacciatore, devo dire che l’ho letto seguendo i consigli di Pennac in “Come un romanzo”, quando rivela il segreto per evitare la disaffezione alla lettura: non forzare la mente e il cuore obbligandoli a leggere pagine che risultino, almeno in quel momento, poco interessanti, e quindi quelle vanno saltate, con coraggio, non è un “sacrilegio”! oppure dice ancora il giovane francese, leggi i capoversi e poi vai all’altro capitolo o all’altro ancora.
Non sono un lettore che si appassiona ai libri polizieschi, quindi non me ne voglia il buon Carofiglio, se continuerò a seguirlo ma non quando veste i panni di Guerrieri. Tuttavia ne consiglierò la lettura alla mia amica Claudia che ho avuto come alunna diligente a scuola, ora negli uffici del Tribunale di Cassazione a Roma e che aspira a diventare magistrato. Lei riuscirà nell’intento perché ha tanti talenti e sicuramente trarrà profitto e buoni insegnamenti su come impostare la difesa per arrivare poi all’arringa che sfiori la perfezione, seguendo strategie, dubbi, riflessioni nel ricostruire un caso che vengono dalla mente acuta di un eccellente magistrato oltre che da un valente, abile scrittore.