di Agata Salamone
Nel paesaggio perturbante della provincia di Bergamo, nel tempo della pestilenza polmonare che sta flagellando il mondo, il lusso della riflessione filosofica diventa un lusso più democratico, accessibile a tutte le menti e a tutti i cuori. È da qui che si scopre come l’abitudine alla lettura e alla rilettura di alcuni classici della letteratura filosofica può riservare delle sorprese salvifiche.

Sentite questa citazione tratta dal romanzo filosofico di Camus “La peste”: “… E per tutti noi il sentimento principale della nostra vita, che pure credevamo di conoscere bene assumeva un volto nuovo…..Quella separazione brutale, senza appello, senza un avvenire prevedibile, ci lasciava sconcertati, incapaci di reagire di fronte al ricordo della presenza ancora così vicina e già così lontana che ora occupava le nostre giornate.” Sono parole che raccontano lo sconforto dell’isolamento sociale che stiamo vivendo adesso. La letteratura può rivelarsi profetica.
Da un classico a un altro classico: “L’uomo senza qualità” di Musil. Romanzo di indagine psicologica, anzi, potremmo dire, psicologia sperimentale. Più di mille pagine di scrittura a metà tra la narrazione e la riflessione filosofica che viene definita “saggismo”. Qui leggiamo: “…Piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità … protetti in mezzo al caos”. Il dato psicologico, possiamo dire, universale è che la concezione della storia come serie ordinata di fatti è rassicurante. Che “le stesse cose ritornano”, e che ci sia un legame causale tra i fatti che si succedono è un’idea-rifugio che allontana le paure di quel caos che invece è la storia umana. Il pensiero che non ci sia una normalità a cui far ritorno è per noi adesso un’idea perturbante. Eppure bisognerà fare i conti con qualcosa di inedito nella storia umana: l’imprevisto accade. La mentalità comune non ha ancora preso atto che l’immagine meccanicistica del mondo è stata superata dalla scienza già da molto tempo. Le scienze hanno vissuto la crisi di quella immagine e si sono aperte al principio di indeterminatezza per il quale la conoscenza del reale non è una rassicurante certezza.

È soprattutto il linguaggio della scienza, la terminologia tecnica dettagliata, che ci ha suggestionato suscitando una reverenza devota per la descrizione del reale come ordinato e prevedibile funzionamento dei fenomeni. A ironizzare su questo aspetto della comunicazione scientifica lo stesso Musil, nell’incipit del suo pseudo-romanzo, trasforma la semplice frase “era una bella giornata d’agosto” in una lunga locuzione descrittiva dei fattori climatici, tipica degli annuari astronomici. Con ironia egli critica il manierismo della comunicazione scientifica e l’effetto rassicurante che la versione scientifica dei fatti ha per tutti noi. Musil continua: “Ma i tempi erano in movimento, procedevano alla velocità di un cammello. Non si sapeva però in che direzione. Ed era difficile distinguere il sopra e il sotto, e le cose in regressione da quelle in progresso …”. La conclusione filosofica che ne trae è che è difficile ogni giudizio. Tra mente e cuore, per esempio, siamo abituati a fare una distinzione radicale, ma da molto tempo filosofi e scienziati ci stanno dimostrando che questa distanza non c’è.
Per guardare con occhi nuovi i fatti attuali dobbiamo pensare con lui che “gli uomini passano sulla terra come profezia del futuro, e tutte le loro azioni sono prove e tentativi perché ogni azione può essere superata dalla successiva”. Ci siamo sentiti aggrediti da una assoluta novità imprevista, ma nulla era in effetti imprevisto: è come se “….la vecchia e inetta umanità si fosse addormentata su un formicaio”. Ci converrebbe, in questa solitudine, prenderci uno spazio di riflessione per capire quali responsabilità dobbiamo assumerci, come Didone “che taglia a strisce la pelle di bue con cui perimetrare il suo regno…si prende una vacanza dalla vita per capirsi”. Oggi purtroppo la responsabilità non viene pensata a partire da noi, dalle nostre decisioni, dai nostri comportamenti, ma ha il suo punto di gravità nella concatenazione delle cose; si attribuisce alla concatenazione dei fatti che provengono dalle decisioni incontrollabili di altri soggetti: Dio, il governo, i diversi nemici interni a cui possiamo incollare la croce del capro espiatorio, compresa la massa degli “altri” pensati come massa irrazionale e pericolosa.

Quello che stiamo vivendo, per noi che ci pensavamo al sicuro dalle pandemie del passato medioevale, sicuri e protetti da una scienza onnipotente e dai presidi di protezione che pensavamo efficaci, appare come un paradosso, un impensabile incubo. Stiamo imparando però che “il cammino della storia … non è quello di una palla di biliardo che una volta partita segue una certa traiettoria, ma somiglia al cammino di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade, e qui è sviato da un’ombra, là da un gruppo di persone o da uno strano taglio di facciata e giunge infine a un luogo che non conosceva e dove non desiderava andare”. Abbiamo imparato che accade l’imprevisto, che la storia, che la vita non è in nostro potere. Stiamo imparando che la ricerca scientifica è solo ricerca. L’abbiamo pensata quasi come una magia. Ne avevamo fatto una religione. Ci rassicurava la forza sentimentale e intellettuale del suo linguaggio, la descrizione precisa delle condizioni e degli eventi che invece sono del tutto imprecisi. “Il perfido raziocinio fa dell’uomo il padrone del mondo, ma lo schiavo della macchina”. Per Musil il mito della scienza rende sterile il pensiero comune: lo sguardo specialistico esamina porzioni della realtà, ma è indifferente per l’insieme, anzi spesso fiuta le possibilità di profitto anziché darsi l’obiettivo del bene comune. Per Musil la freddezza e la violenza che contraddistinguono il nostro tempo sarebbero…unicamente conseguenze del danno che un ragionare logico e rigoroso arreca all’anima. “..con la sola intelligenza non si può essere morali né fare della politica … un giorno ci accorgeremo che un uomo semplicemente buono, qualunque sia la sua intelligenza, un uomo sereno, valoroso, leale, non è soltanto una grandissima gioia per chi lo incontra, ma è il vero humus in cui è riposta la vita”. Lo stiamo imparando. La morale del nostro tempo è quella della riuscita. “Cinque bancarotte più o meno dolorose vanno benissimo purché alla quinta segua un periodo di prosperità”. Per Musil dovremmo imparare a “conservare il calore dell’incubatrice dove si cova ogni crescita spirituale” invece. Lo stiamo imparando.

Un filosofo contemporaneo, Benasayag, nel testo “Oltre le passioni tristi”, descrive il paesaggio sociale devastato dal neoliberismo attuale, dominato dall’individualismo sfrenato, dal mito della etichetta professionale, dalla competizione senza quartiere. Benasayag descrive la nostra impotenza collettiva, vittime come siamo di un malessere generale, noi che viviamo spaesati, espropriati del nostro tempo, con il senso di colpa di pensarci inadeguati anziché sfruttati. I saperi si sono fatti complici del furto che abbiamo subito, anzi hanno promosso un nostro riadattamento all’economia delle prestazioni, invece di prendere a cuore la nostra difesa. La psicoanalisi, per esempio, ha medicalizzato il malessere generale ormai così evidente, lo ha imputato a inadeguatezza psicologica e lo ha curato con farmaci che hanno avuto l’effetto di stabilizzare la nostra dipendenza dal sistema: ha ricondotto la sofferenza a una matrice soggettiva e ha abbandonato il terreno della critica sociale e politica. La psicoanalisi, e non solo essa (la scuola anche, la pratica del cristianesimo anche), non è più punto di resistenza, ma terapia adattiva. La persona triste, assillata dal degrado, viene trattata come malata e la malattia viene interpretata come devianza sociale.
La sofferenza viene spogliata di senso, mentre invece la sofferenza è creatrice. La morte, la malattia, la sofferenza, le nostre fragilità, sono forze dinamiche. È piuttosto la scomparsa del sentimento tragico della vita che appiattisce le aspirazioni verso la semplice conservazione dell’esistente, acquieta lo stile di vita nella dimensione delle abitudini, rattrista l’esistenza.
Stiamo imparando che la condizione umana è tragica. Ne abbiamo avuto la percezione chiara nella immagine televisiva di papa Francesco che nella piazza, lucida di pioggia, deserta, il 27 marzo, solo, sotto un cielo cupo, ha benedetto una grande assenza. La civiltà occidentale, che è una civiltà materialista-capitalistica-consumistica, è nata però col monachesimo europeo, con l’etica del binomio preghiera e lavoro, con l’accentuazione della dimensione spirituale del vivere. Essa originariamente ha dato il primato alla vita interiore; è nata con la lettura silenziosa. L’educazione richiamava ad aver cura della propria interiorità per mettersi in sintonia con l’armonia del tutto a cui apparteniamo. L’umanesimo europeo dà i primi segnali con Giotto che educa all’empatia.
La radicale artificializzazione della vita moderna ha fatto dimenticare la complessità della vita. La modernità ha decostruito i legami di tipo organico con la Terra. “Abbiamo creduto di poter vivere sani in un mondo malato”. Abbiamo sottostimato la capacità invasiva di un contagio virale, anzi fino ad un certo punto abbiamo pensato che non ci dovesse riguardare. Abbiamo escluso la morte.
La morte è l’avvenimento più naturalmente biologico. Il più prevedibile. Ma è insieme il più culturale. È nella coscienza che diventa un fatto reale, è quindi intellettualmente che ne diventiamo consapevoli. Ma è un pensiero difficile. Ci fa orrore. L’orrore della morte è l’emozione della coscienza individuale che sa di poter perdere la propria individualità. Idea traumatica per eccellenza. Una specie di “cecità animale” ci difende, ci fa insistere a pensarla come un accidente, non cogente.
A me piace pensare con Heidegger che la consapevolezza della morte, e solo essa, mette in uno stato autenticamente umano. I rituali che la ufficializzano hanno un valore profondo che radica la società umana e ne annoda i vincoli. La morte impone moralmente una fedeltà nel fare il lutto. Secondo Derrida tale fedeltà consiste nell’interiorizzare l’altro e dare qualcosa a lui solo in noi: ciò che diciamo a lui resta in noi. I vivi sono ciò che sono grazie alla memoria. L’interiorità si costituisce in rapporto ad essi. L’uomo è tempo. Siamo tempo. E il “tempo è mezza mela”, come dice Nicola Gardini – in “Poesie per capire il mondo”.
Il tempo è quella vela
che sta sparendo al largo
l’odore di candela
appena appena spenta
l’inizio del letargo
il tempo è mezza mela
è il globo di polenta
che cresce sulla fiamma
lo stagno che si gela
è il nero pentagramma
la grigia ragnatela
che la zanzara impiglia
il numero di miglia
che ci separa adesso
il tempo è questo stesso
discorso che vi faccio
passando i suoni giusti
tra i buchi del setaccio
un po’ per tutti i gusti.
“Il tempo è l’arte di contare
le notti e i giorni dall’inizio
è dunque arte stellare
che vuole gran giudizio.
Non lasciare incontata notte alcuna
e un giorno non aggiungere alla somma.
Una è la storia del sole e della luna.
Se si sbaglia ricorrere alla gomma.
“Tutto ciò che ha valore è costoso, esige molto tempo e richiede molta pazienza”. Diventare se stessi richiede un lungo lavoro. L’individuazione è un processo che contemporaneamente differenzia i singoli che diventano singoli, mentre raccoglie tutti nella stessa complessa e globale umanità di nascita e appartenenza.
Ciò che siamo e ciò che pensiamo di essere potrebbero non coincidere. Capirsi è una necessità. Dalla consapevolezza dei nostri limiti otteniamo un altro orizzonte e un altro paesaggio terrestre, dove la cura è la modalità autentica della vita umana.
Agata Salamone