di Alfio Pelleriti

Perché mai “Lettera a una professoressa” dovrebbe essere bruciato, secondo qualcuno? Perché non varrebbe niente, secondo sbrigativi giudizi che sintetizzerebbero approfondite analisi pedagogiche, didattiche, sociologiche?
Ho letto il libro e finalmente ne posso parlare non “per sentito dire” o facendo mie le impressioni di sedicenti critici letterari o di fustigatori dei costumi correnti. Questo libro si può considerare un “commentario” sulla scuola degli anni Sessanta del Novecento in Italia curato dalla Scuola di Barbiana. Sì, proprio quella dove insegnava Don Milani, quella dove si ricordava che le ragioni della democrazia sancite dalla Costituzione, valevano anche per la scuola.
Oggi negli anni del postmoderno e della scuola scientista e potentemente informatizzata, nell’era delle lavagne multimediali o “LIM” ( che non funzionano o che nessuno utilizza), liquidiamo senza appello la scuola che auspicava un approccio non classista nella didattica; un insegnamento che mettesse in evidenza le problematiche del presente storico, dedicando, per esempio, un tempo adeguato alla lettura dei quotidiani; una scuola dove ci si serviva del tutoraggio dei ragazzi già formati per aiutare chi ancora non aveva raggiunto standard sufficienti di apprendimento.
Perché mai dovrebbe essere cestinato “Lettera a una Professoressa”? Forse perché l’espressione del libero pensiero a scuola è divenuto un esercizio pericoloso? Forse perché a scuola non si ha più tempo di discutere perché troppo presi nella programmazione di interventi didattici impossibili da realizzare o semplicemente inutili, come ad esempio l’”alternanza scuola lavoro” o le unità d’apprendimento?

Il libro curato dal priore di Barbiana denunziava la formazione di classi omogenee. Negli anni ’60 e ’70 nelle scuole italiane continuavano ad esserci, nonostante la riforma del 1962, le classi per i figli della piccola e media borghesia e le classi “ghetto” per i figli degli operai e dei contadini, nonostante l’articolo 34 della Costituzione garantisse per la scuola gli stessi principi di democrazia validi per le nuove istituzioni della neonata repubblica italiana, togliendo ogni tipo di ostacolo per la formazione e l’istruzione, in una scuola pubblica, obbligatoria e gratuita fino ai tredici anni. Bisognava tacere e non denunziarle tali contraddizioni?
Perché non sono più interessanti tali asserzioni? Forse perché su questo punto tutti sono stati negligenti e conniventi tollerando i corsi e le classi riservati a certi ragazzi e a certi insegnanti? E classi per chi non conta nulla e per gli ultimi arrivati tra i docenti?
“gli altri due non sono tornati a scuola. Sono a lavorare nei campi. In tutto quello che mangiamo c’è dentro un po’ della loro fatica analfabeta.”
Qualcuno dirà che questo libro come tutti i libri è pura invenzione. Eh, no! Non è così! Questo libro presenta una realtà storica, vera ed autentica; onesta e trasparente. Posso dirlo perché ho vissuto quegli anni da studente come loro, in quella scuola classista, violenta, autoritaria, senza alcun progetto educativo e didattico. Io ho vissuto i miei 8 anni di scuola dell’obbligo in quella scuola che sulla carta era diventata democratica e nei fatti era ancora autoritaria, ottusamente violenta e selettiva, affidata ad insegnanti mediocri che spesso sfogavano le loro frustrazioni esistenziali sui figli degli operai o dei contadini, picchiandoli, infliggendo castighi umilianti, offendendoli, ironizzando sui loro errori, disprezzandoli insomma e bocciandoli infine con sadica soddisfazione senza mai fare un po’ di autocritica sui loro metodi educativi.

Sì, si bocciava con facilità e senza alcuna remora morale o professionale in quegli anni, e molti miei compagni abbandonarono la scuola per andare a lavorare nei campi o manovali presso artigiani, tirannici anche loro, oppure emigrarono in Svizzera, in Germania o a Torino portandosi dietro uno stato di minorità che li avrebbe segnati per la vita e che mai avrebbero colmato o riscattato.
“Voi dite di aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi.”
Perché non vi piace questo libro ch’è una testimonianza storica e un proclama per una scuola finalmente democratica nei fatti? che sa indicare un percorso in questo nostro presente dove i burocrati fanno a gara per distruggere la scuola pubblica, perpetrando, sotto traccia, la formazione di elitès che frequentano istituti privati e università che garantiscono un sicuro inserimento nel mondo del lavoro?
Bisognerebbe rileggerlo questo libro invece. Lo sottoporrei ai docenti della nostra scuola cui il ministro consiglia di far usare cellulari ai ragazzi nelle aule, abbassando ulteriormente i livelli della loro preparazione; in questa scuola dove si perpetuano sperequazioni culturali che innescheranno ingiustizie sociali. Soprattutto si legga questo libro nel Meridione d’Italia dove pronunciare il termine “cultura” lascia perplessi e infastiditi; dove ci si avvinghia confusi negli stessi problemi da decenni; dove la percezione della realtà non è chiara, obiettiva, trasparente e ognuno, badando al suo piccolo orticello, pensa di aver risolto ogni problema.
Questo libro denunzia le contraddizioni della scuola degli anni Sessanta che consigliava ai genitori poveri di mandare i loro figli al lavoro perché non adatti allo studio, tradendo così lo spirito della Costituzione.
Questo libro è già datato e non va più bene? Ma io ho conosciuto a scuola colleghi che velocemente e in maniera incomprensibile presentavano i loro argomenti disciplinari senza passione, senza curarsi di migliorare la loro metodologia, il loro approccio didattico, senza preoccuparsi del perché i loro alunni non seguissero le spiegazioni e alla loro distrazione rispondevano con autentico disprezzo e, come avveniva qualche decennio fa, sono convinti che nulla si può fare per i ragazzi distratti perché ritenuti incapaci e non adatti allo studio.
Questi ragazzi però non li si boccia più come in passato, li si promuove tutti e anche con buoni voti. I docenti danno il minimo e neanche quello, non educano, non formano e non istruiscono e quindi promuovono. Sono gli stessi insegnanti che poi danno lezioni private ai figli della piccola e media borghesia e, allora sì, che si impegnano in quel “furto”, perpetrando un tradimento alla loro professione, vivendo una doppia identità: quella formale-istituzionale e quella imprenditoriale. E ancora una volta i figli del popolo son destinati al non inserimento nel tessuto sociale: saranno eterni precari o si accontenteranno di un lavoro sottopagato o saranno semplicemente disoccupati.
La promozione facile appiattisce in basso e il merito e la preparazione, le sole armi per i poveri di avere una speranza di successo. Esse non servono perché tutti hanno il diploma o la laurea e dunque prima i figli dei ricchi e dei potenti poi, se c’è posto, vengono gli altri, altrimenti, come in passato, si emigra verso altri lidi. Luoghi lontani ma dove almeno si sanno apprezzare le virtù ed i talenti traendone beneficio economico ed efficienza nei servizi o nella produzione o nella ricerca.