In un numero dedicato alla vita autentica e all’etica della responsabilità non poteva mancare un riferimento alla concretezza della storia, ad eventi svoltisi nella Sicilia di fine Ottocento. Per questo ci siamo avvalsi del contributo di Alfio Grasso, storico che da anni fa ricerca sul movimento contadino in Sicilia. Il professore ha messo in evidenza nelle sue pubblicazioni le ingiustizie e le vessazioni subite dalle masse popolari siciliane per mano di una classe dirigente ottusamente chiusa ad ogni anelito di giustizia, ad ogni richiamo di cambiamento per un miglioramento economico delle classi povere dell’isola. L’articolo mette in evidenza dunque il tentativo dei contadini di formare una organizzazione politica per rivendicare diritti e dignità del lavoro da sempre negati e la reazione violenta e repressiva del governo diretto dal siciliano Francesco Crispi. (n.d.r.)
di Alfio Grasso

Dei Fasci dei lavoratori siciliani Benedetto Croce non ebbe una buona opinione ed in particolare non l’ebbe su quella rivendicazione dai Fasci, definita “Patti di Corleone”, dei quali ci occuperemo in questa nota. Ciò non stupisce affatto anche se l’atteggiamento di chiusura risulta incomprensibile nella sua pregevole opera Storia d’Italia. Può capitare e capita anche a chi – come il Croce – dopo aver analizzato quanto accadde nel 1893, ed aver ammesso che, in quell’anno, nel Paese, “si ebbero non pochi scioperi” e che, peraltro, trovava ridicolo “quando si rileggevano le parole paurose di quei giorni, da parte di buon pensanti, sulle enormi richieste che gli operai osavano affacciare: ‘volevano la riduzione della giornata di lavoro a dieci ore, la istituzione di sindacati per trattare da pari a pari coi padroni, il riconoscimento delle corporazioni come enti morali’”, tanto che allo stesso veniva “da sorridere sulle previsioni di finimondo”. Stupirsi, come poi si stupì Croce, che movimenti di operai e di contadini potessero avverarsi in città come Napoli o in una regione come la Sicilia “la meno progredita, la più distaccata dal resto d’Italia” ci lascia molto perplessi. Ma il quadro della sua analisi storica sgradevole, si completa allorquando egli afferma che “ci sono sempre di quelli che si danno a credere di poter forzare la storia, e compiere per improvvisazioni e colpi di mano profonde rivoluzioni” e, ciò teorizzava, sol perché quel movimento del profondo sud avanzava legittime rivendicazioni. Sarebbe come dire, riprendendo un concetto espresso dallo stesso Croce, di non “meditare sul corso delle cose umane, e di vedere riconfermata la verità del detto: “l’utopia dell’oggi è la realtà del domani”, con la conseguenza che questo concetto evoluzionistico valeva per tutte le regioni italiane, ma non per la Sicilia. Non accorgersi del nuovo, di come esso avanzava e si esprimeva nelle sue diverse sfaccettature, sarebbe come negare l’evidenza e pronunciare un’eresia spropositata e priva di gusto, appunto, perché l’affermazione, riferita all’ambiente siciliano della seconda metà dell’Ottocento valeva a negare valore a quel poco d’avanzamento economico che pure c’era stato, ma che subito fu posto in crisi da politiche poco avvedute e, nel contempo, significava negare quel giusto riconoscimento a quelle indagini ricognitive che allora si fecero con le inchieste portate a termine sia da Franchetti e Sonnino, che dal Governo e non tenere conto delle peculiarità storiche, proprie dell’ambiente isolano. E’ una conclusione spropositata che da detta affermazione si possa ricavare l’idea che i socialisti siciliani “costrinsero i latifondisti ad accettare per allora i gravosi patti agrari, che si dissero di Corleone” perchè tradisce il metodo di fare storia, il quale presuppone sempre la ricerca attenta e l’individuazione dei fatti accaduti e scientificamente accertati. L’unica storia, come ci ha insegnato lo stesso Croce, è quella basata sui fatti reali e costruita su documenti e non su presupposti dialettici che tendono solo a dimostrare tesi preconcette e ideologizzanti, infarcite di virtuosi propositi non liberali, ma liberisti. Sarebbe bastato soltanto porre maggiore attenzione ai fatti, percorrere a passi lenti il breve tragitto con cui si arrivò a quei “Patti”, per capire che non c’era stata alcuna forzatura e, quindi, nessuna “costrizione” era stata praticata nei confronti dei “poveri” latifondisti del tempo, i quali se avevano subito un danno non era stato certamente quello economico, ma soltanto quello di essere stata lesionata, seppure in piccolissima parte, la loro prepotenza, che spesso comprendeva atti mafiosi e criminali.

Il 30 luglio 1893, giorno della nascita dei “Patti agrari [che] si dissero di Corleone”, rappresenta la data simbolo dell’avvio in Sicilia della contrattazione collettiva agricola. A Corleone il Fascio dei lavoratori della provincia di Palermo, riunitosi in Congresso, riuscì ad approvare i cosiddetti “Patti di Corleone” che furono accettati senza “costrizione” dagli agrari di quella zona. I contadini associati nel Fascio non chiesero altro che patti agrari meno disumani e puntarono, in ultima analisi, a reintrodurre la metateria e si adoperarono per applicare, anche in Sicilia, la “mezzadria classica”. E, per vero, quei “Patti di Corleone” costituirono, per quel tempo (e costituiscono tutt’ora) un importante documento storico che inaugurò, nella Sicilia di fine Ottocento, annessa all’Italia sabauda e post-borbonica, la prima trattativa sindacale; trattativa che, assunse, allora, particolare rilievo non tanto e non soltanto per l’aspetto rivendicativo, fatto certamente egregio ed importante anche se insignificante sotto il profilo economico, quanto per il carattere politico-sindacale, essendosi i contadini, organizzati e costituiti in Fascio, quale fronte unico dei lavoratori, dinanzi alla prepotenza della proprietà terriera; cioè i contadini uscivano dall’isolamento e si organizzavano in associazioni di categoria, per non inscenare più tumulti incontrollati e spesso pericolosi. Ma l’aspetto più consistente e rilevante si coglie nel fatto che, con l’unificazione, si era aperto un capitolo nuovo nella storia siciliana che si inseriva nella scena politica nazionale. L’Unità d’Italia, realizzata senza la partecipazione delle masse contadine e popolari, metteva a nudo ed in termini nuovi il problema dei problemi cioè quello dell’insieme delle forze contadine siciliane, che poi non era solo di queste categorie, ma di tutta la nascente società siciliana e nazionale.

Il sorgere dei Fasci dei lavoratori siciliani segnò, in questo senso, lo spartiacque in cui si chiudeva il periodo storico delle inchieste e se ne apriva un altro teso alla formazione di uno spirito nazionale che vedeva le masse popolari e contadine porre condizioni e istanze, ma che i governi scaturiti dall’Unità d’Italia, piuttosto che accoglierle, preferivano consolidare il solito corso politico, sostenuti dagli agrari e da gruppi della borghesia agraria ed urbana restii ad accettare ogni pur insignificante rivendicazione dei diseredati. Questa fase triste e dolorosa si chiudeva in un clima d’incapacità della classe politica ad assicurare quel minimo di progresso economico, civile e morale alle popolazioni siciliane, con l’aggravante che non riuscì nemmeno a garantire quelle condizioni di vita, difficili e precarie di cui, in precedenza, godevano le masse popolari. Fu, infatti, con l’affacciarsi dei Fasci dei lavoratori, quale forma di organizzazione dei lavoratori della terra, che si aprì una fase nuova per le popolazioni agricole ed urbane siciliane. I “Patti di Corleone” rappresentarono, appunto, un fatto storico che avviò un movimento mirante all’associazionismo sindacale, economico e politico del mondo contadino. In questo contesto un altro aspetto ancora più importante si delineò nell’orizzonte politico siciliano: i contadini non dovevano più trattare da soli ma dovevano prima accordarsi tra loro e dunque occorreva organizzarsi in partito, in modo da costringere i padroni (o concedenti) ad accettare le loro richieste di miglioramento economico. In buona sostanza i “Patti di Corleone” racchiudevano in sè la formula “i contadini, riuniti a congresso, fissano in modo autonomo le condizioni del contratto e ne chiedono l’accettazione alla controparte; in caso di rifiuto, prevedono il ricorso all’arma dello sciopero”.

CHIAPPORI, STORIE D’ITALIA 1870-1896 LA SINISTRA AL POTERE
Editore FELTRINELLI, 1979
Essi, pur non costituendo una forma moderna e avanzata di rapporti agrari e pur non avendo una piattaforma rivendicativa adeguata ai tempi, rappresentarono nell’ambiente siciliano un fatto nuovo. Manifestavano il bisogno di una revisione immediata dei rapporti agrari in generale, che preludessero a miglioramenti più incisivi mediante un accordo bonario tra le parti (concedenti e concessionari) e solo, ove occorreva, ad un ricorso alla lotta legale, disciplinata, organizzata e diretta da una struttura politico-sindacale (il Fascio dei lavoratori). Ecco perché con quei “Patti”, secondo una valutazione di Antonio Labriola, si affermava, in Sicilia, “il primo movimento di massa proletaria che [s’era] visto in Italia; [cioè rappresentava] il primo atto del socialismo proletario in Italia”.
Quei “Patti” misero in discussione la società siciliana, che era prettamente agricola, nella quale protagonisti indiscussi erano “nobili proprietari e contadini; svegliarono le coscienze di questi ultimi, da secoli assopite, e diedero modo di consolidare l’esile struttura dei Fasci dei lavoratori.
Fu proprio per tali motivi che si negò valore ai “Patti”, anzi furono considerati un “imbroglio”, per cui era d’uopo usare la “forza” per soffocare e distruggere quel movimento, contro il quale, Francesco Crispi, schierò poi l’esercito e i carabinieri e fu versato del sangue. In realtà, non c’era alcun “imbroglio”, ma il legittimo scopo di ottenere patti agrari meno gravosi e salari adeguati ai bisogni delle famiglie, di abbattere le cinte daziarie, di potere liberamente organizzare cooperative di consumo e di chiedere l’assegnazione delle terre demaniali. In pratica si reclamava, con azioni pacifiche, il miglioramento delle condizioni di vita delle masse contadine siciliane. Ma quelle riforme, secondo Crispi, dovevano essere calate dall’alto, senza agitazioni di popolo o l’intermediazione delle organizzazioni sindacali, impedendo di fatto che i contadini avessero parte attiva, e, di conseguenza, fu usato il pugno di ferro, facendo ricorso alla repressione e allo stato di assedio, strumenti considerati necessari dalla politica crispina.
Crispi era legato alla borghesia rurale più conservatrice e ai latifondisti siciliani in quanto essi rappresentavano, in particolare nel periodo post-risorgimentale, la classe più “unitaria”, che non avrebbe creato alcun problema al suo progetto autoritario. Egli – prima “garibaldino” e repubblicano, dopo, trasformista, convertito alla monarchia – dimenticò che i contadini avevano acquisito tanta consapevolezza dei loro diritti e dei loro interessi e che si erano persuasi di aderire ai Fasci dei lavoratori o a qualsiasi altro movimento organizzato, nell’intento di superare le misere condizioni di vita nelle quali versavano da secoli e che ciò non era possibile realizzare se non mediante un’emancipazione spontanea dal sistema “vessatorio ed abusivo delle mezzadrie”, barriera che poteva essere superata soltanto dall’impeto dell’azione collettiva, legale e semplice dei contadini – i Fasci – che li univa e li rendeva solidali nel volere, negli scopi e nei propositi. Questi propositi nuocevano a quella borghesia agraria siciliana e meridionale, sostenuta da Crispi, che mirava a sostituire una nobiltà, ormai superata e sepolta, acquistando le terre del demanio comunale e quelle degli enti ecclesiastici e ricostruendo estesissimi latifondi.
In buona sostanza il disegno politico scellerato del Crispi fu rivolto a tacitare quel movimento spontaneo siciliano con l’intervento dell’esercito, lo stato d’assedio e la galera, azioni che contribuirono a gettare l’intero Mezzogiorno in una crisi commerciale profonda.
Nell’ambito di una politica capitalista che vedeva il rafforzamento dell’industria del Nord e degli agrari del Sud mediante una politica protezionistica, Crispi, caparbiamente, voleva dimostrare all’Europa che l’Italia aveva anche una sua politica imperialista capace di gareggiare con altri stati europei nelle conquiste coloniali.